Italiano
Ripensare la tradizione. La fotografia italiana e, in particolare, quella siciliana che per la sovrabbondante presenza di autori rappresenta un vero e proprio unicum, opera intorno al consolidamento di una tradizione visuale – lo vediamo nel ripetersi costantemente di codici espressivi – che nel rispetto del lavoro dei grandi autori, tra rimandi più o meno diretti, finisce per esaltare un linguaggio già sperimentato. L’operazione in sé, cioè il desiderio di accostarsi ai grandi della fotografia, se da un lato appare un rispettoso omaggio verso le grandi lezioni sopraggiunte a noi nella loro brillante densità, dall’altro affronta il rischio di svilire una ricerca che i giovani autori sacrificano sull’altare della trasposizione tradizionale. Forse è colpa della stessa fotografia che, come afferma Scianna, “ha lo sguardo in avanti guardando dallo specchietto retrovisore”, a causa della sua natura conservatrice e, talvolta, a causa degli stessi operatori, poco inclini alle novità. Eppure la natura impura della fotografia dovrebbe permettere l’ingresso di nuove esperienze, nuove sperimentazioni che stabiliscano un nuovo equilibrio nella cultura visuale immettendovi nuova linfa. Credo, in sostanza, che la polemica tra ciò che è considerato banalmente “vecchio” e quanto invece si affaccia come “nuovo”, debba tenere presente la breve distanza che li separa, una distanza che come una porta girevole può immettere in un territorio inesplorato e pieno di opportunità, salvo poi ritrovarsi fuori se le stesse opportunità non sono colte. Nulla si inventa, tutto si trasforma. Le lezioni si assorbono e si elaborano. Solo così è possibile ascoltare nuove voci. Raccontare la Sicilia non è mai un’operazione facile. La fotografia siciliana, così stretta tra la tradizione neorealista e quella umanista ha prodotto, come si diceva, una pletora di cloni, specialmente in ambito amatoriale. Ma la fotografia, così come l’arte in genere, ama invece la furia iconoclasta delle immagini. Evitata dunque la ripetizione fotocopia, disumanizzata come solo una duplicazione sa essere, la sua scientifica, metodica decostruzione si impone come un modello di fondazione, nel caso della fotografia, di una nuova grammatica visuale. La Sicilia, si diceva. La Sicilia dei grandi autori, italiani e stranieri – questi ultimi vi si recavano con lo stesso spirito dei letterati del Grand Tour – non c’è più, è talmente cambiata che per comprenderne lo spirito è alle loro fotografie che bisogna guardare e, in taluni casi, aprirsi alla commozione per un tempo che per fortuna o per sfortuna non tornerà più. Ma il racconto non si esaurisce, c’è ancora molto da narrare, da osservare e fotografare. E qui, una volta evitato l’interrogativo di “cosa” fotografare, considerata l’enormità dei soggetti paesaggistici e umani, siamo costretti ad affrontarne un altro assai più insidioso: “come” fotografare la Sicilia e la sua gente. Problema di non poco conto, visto che si tratta specificamente di linguaggio, e quindi il fotografo siciliano è chiamato alla responsabilità della fedeltà – siamo “qui e ora” – che incontra la volontà di “tradurre” l’immagine trasmigrandone i contenuti sul piano di un’elaborazione estetica in grado di mantenere integro quel “qui e ora” che ne certifica la contemporaneità. Il fotografo così è chiamato ancora una volta a essere testimone di una società in continuo mutamento, registrando in diretta, si direbbe, l’apparire di nuovi costumi, vezzi, aspettative nel loro apparire. “Sicily#6” di Massimo Gurciullo che, come si evince dalla numerazione è giunto al sesto capitolo di un racconto che per le prerogative descritte potrebbe non avere mai fine, si colloca esattamente nel crinale tra tradizione e modernismo. Non uso a caso il termine capitolo. In ognuno di esso infatti si intravede la profondità dell’analisi visuale, la ricerca di un linguaggio sempre più puntuale. La Sicilia di Massimo Gurciullo esce dai canoni narrativi tradizionale per fare ingresso nella dimensione straniante dell’allusione, una dimensione mai discosta dallo stile che gli è più funzionale ai fini del racconto. Tutto è riconoscibile e, allo stesso tempo, non facilmente identificabile quasi che il fotografo avesse stabilito di ingaggiare con l’osservatore un inganno modulato dalle regole, un gioco in cui ognuno ha la facoltà di scorgere quanto dettato dalla propria sensibilità. Le sue visioni, così sdrucciole, quasi urticanti no devono apparire come un mero esercizio di stile. Quanto vediamo in “Sicily#6” non è altro che un “deposito d’esperienze, una geografia dell’anima che ci chiede d’essere rappresentata”.
Ho appena citato un’affermazione di Luigi Ghirri, un autore assai lontano dallo spirito di Massimo Gurciullo, ma che ha in comune la stessa profondità di sguardo e indagine. I riferimenti sono altri, più evidenti, segno che l’autore possiede una vasta cultura fotografica e un trasporto emozionale verso i grandi della fotografia contemporanea. In ordine a quanto accennato prima, e cioè nulla si inventa, tutto si trasforma, il problema del discostamento, vale a dire del superamento di una lezione, in Massimo Gurciullo sembra essere risolto nel mescolamento d’esperienze.
Le “rapide visioni” di “Sicily # 6”, prese al ritmo d’una rapsodia, offrono lo spunto per una discesa in alcune considerazioni non propriamente di carattere fotografico ma che in qualche modo, quando la fotografia è affrontata lateralmente, quando in altre parole è pronta a inglobare metafore, permette che la sua voce si dispieghi meglio. Del resto, se per parlare di fotografia si parla solo di fotografia, ignorando quella che è l’esperienza primaria dell’uomo e cioè la vita, non credo che si faccia un favore alla fotografia. Così, nella variegata interpretazione del mondo che “Sicily#6” ha come obiettivo, vediamo come sia impegnato a entrare e a uscire da un canovaccio consolidato, qualcosa che conosciamo e riconosciamo nella sua decostruzione. Non c’è dubbio che in questa vocazione all’interpretazione Sicily#6 somigli a una lunga suite jazzistica. Poi, naturalmente, c’è lo specifico fotografico. Lo sguardo di Massimo Gurciullo è cosmopolita, laico, aperto alle influenze e alle tendenze che ne hanno segnato il percorso professionale. In “Sicily#6” appare chiaro infatti come l’esperienza di Provoke (quel “materiale provocatore per il pensiero” che sul finire degli anni ’60 e nonostante la sua breve esistenza, determinò fortemente il linguaggio della fotografia giapponese prima e mondiale poco più tardi), dialoga organicamente con le esperienze più tipicamente europee. Su tutti, una volta citato l’urticante bianco e nero della fotografia giapponese, si sentono echi di Michael Ackerman, si intravedono le convulsioni dinamiche della fotografia di Antoine D’Agata e, facendo un passo indietro nella cronologia, del padre del modernismo americano, Ray Metzker. Per un fotografo i riferimenti, siano essi diretti o indiretti, rappresentano un imprescindibile bagaglio culturale, tanto che in assenza di questo cumulo di informazioni non può esserci fotografia che abbia valore. “Sicily#6”, così come si palesa, è un lungo percorso nell’immaginario ormai scardinato delle nostre convinzioni, un viaggio per apparizioni nel quale la tradizione, sempre rispettata a partire dal lessico fotografico, si coniuga con le aspirazioni contemporanee della cultura visuale favorendo commistioni, perché questo è il compito di qualunque forma d’arte, gettare ponti tra esperienze, unire linguaggi, esplorare le nuove forme del possibile. Se la fotografia conserva la porosità della sua natura si aprirà sempre a nuove tendenze, a nuove formule, a nuovi intrecci, e Massimo Gurciullo con “Sicily#6” dimostra di procedere in questa direzione: la Sicilia da luogo della memoria diventa luogo di una geografia immaginaria, impalpabile e vera, letteraria e vernacolare eppure così vicina a noi da sentirne il respiro, così accanto da riconoscerla sebbene voglia nascondersi. Ma non c’è troppo da sorprendersi: in fondo raccontare il mondo è sempre stata l’ambizione della fotografia.